lunedì 7 febbraio 2011

Appunti su transiti e permanenze ::: Paolo Ferrari

La normazione del sottosuolo

Uno dei grandi problemi dell’uomo, nel costruire il suo rapporto con l’ambiente circostante, è stato sempre quello di conferire uno statuto normativo al mondo inferico, al sottosuolo, quel luogo misterioso precluso ai sensi, ma assolutamente essenziale ad ogni atto umano, fondamento e sostegno all’andare dell’uomo nel mondo e ad ogni sua azione.
Il sottosuolo nel mondo pre-cristiano e nella tradizione contadina si caratterizzava per un’ambivalenza di privazione e abbondanza, Ade e la cornucopia, il mito di Persefone-Demetra, i cimiteri medievali come luoghi di soglia tra l’oltretomba sotterraneo e il mondo di superficie ma anche luoghi di socialità e commercio, l’evoluzione ideologica e immaginale della rappresentazione dell’oltretomba sotterraneo. ( Camporesi, La casa dell’eternità, 1987,  sulla visione barocca dell’inferno in relazione a quella medioevale e in rapporto al mutato quadro sociale)

Il sottosuolo nelle civiltà contadine come luogo di una circolarità di vita e morte. La terra accoglie i morti (uomini, animali e vegetali) e restituisce la vita dei raccolti e della vegetazione; la semina come atto di comunicazione con il sottosuolo. Una rappresentazione del sottosuolo caratterizzata dal tipo di vita e cultura del mondo contadino. Come nell’antichità pre-cristiana, nell’immaginario contadino il sottosuolo è luogo ambivalente di morte e prosperità, la terra dove il disfacimento dei corpi porta alla fertilità del terreno e quindi a nuove nascite, secondo quella visone circolare che è propria delle culture contadine tradizionali, avendo il suo modello nel trascorrere ciclico delle stagioni); nel sottosuolo si trovano anche mondi di abbondanza, i campi elisi dei beati, l’utopia popolare di Cuccagna, secondo la definizione di Jacques Le Goff (Il paese di Cuccagna è stato studiato anche da Giuseppe Cocchiara e più recentemente da Hilario Franco Jr. con prefazione dello stesso Le Goff). Il cristianesimo elaborerà, nel corso dei secoli, la sua rappresentazione del sottosuolo come luogo di eterna sofferenza, e attuerà un costante sforzo di normazione dello spazio sotterraneo per sottrarlo alla vaghezza vitale del mito antico e contadino riconfigurandolo come luogo funzionale alla propria ideologia di dominio sulle coscienze. E’quell’operazione culturale che il medievista  Jacques Le Goff ha definito “infernalizzazione dell’oltretomba sotterraneo”. (L’immaginario medievale, 1993, p. 98).

Il sottosuolo delle città antiche trova la sua configurazione nei cunicoli, nelle reti fognarie, le catacombe, luoghi di rifugio per reietti o cospiratori (si pensi ai primi cristiani). Ma la campagna è ancora vicina e forse ancora non possiamo parlare di una rappresentazione del sottosuolo peculiarmente “urbana”.
Con l’estendersi delle città e delle superfici coperte ed occupate da edifici che “chiudono” sempre più quei varchi naturali attraverso i quali la vita, nella forma dei raccolti e della vegetazione, emerge dalle tenebre del sottosuolo, masse sempre più numerose e concentrate si trovano a condividere un territorio sempre più separato dal mondo sotterraneo.
Si attenua nel mondo delle città moderne quel sentimento di vicinanza misteriosa con il sottosuolo che era proprio del mondo contadino e a misura che queste città diventano metropoli separate dalla circostante campagna, insieme al nuovo sentimento del cittadino contrapposto a quello del contadino (l’abitante del contado) cresce anche una nuova rappresentazione di quel sottosuolo
al quale non corrispondono più i frutti della terra, come manifestazione vitale di un processo che si svolge nel luogo dove vanno le cose morte.
Il sottosuolo cittadino, delle moderne città, non è più luogo funzionale all’economia e all’immaginario contadino, diventa luogo di inquietudini, rifugio di reietti o cospiratori (già lo era, in verità, nelle città antiche, si pensi alle catacombe dei primi cristiani, ma ora la sua dimensione aumenta e il suo spazio acquista distinzione e autonomia rispetto alla campagne circostante), di topi e malattie, di cadaveri questa volta destinati non a concimare il terreno ma a diffondere morbi e da qui il problema della loro collocazione e neutralizzazione. Finalmente un nuovo immaginario e un nuovo vissuto collettivi si sviluppano intorno a queste rappresentazioni del sottosuolo.
Il sottosuolo cittadino delle moderne città, da una parte, è più vissuto di quello contadino, nel senso che in esso trovano rifugio gruppi sociali emarginati, cacciati dalla superficie delle città; ma d’altro verso lo è meno, perché questi gruppi e questi individui non si connotano come viventi (come invece lo erano, in un certo senso, i cadaveri del mondo contadino, perché comunque destinati a produrre nuova vita), lo sono certo da un punto di vista biologico, ma dal punto di vista sociale sono dei “non-viventi”, cioè sono dei morti civili. Così questo abitare il sottosuolo non è un conferirgli vita più di quanto sia un conferirgli morte; un po’ come per il sottosuolo del mondo contadino, dove però, al contrario, erano le cose morte a diventare vive.
Così la modernità, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, affronta il problema di escogitare una nuova normazione del sottosuolo: un sottosuolo che non possiede più le caratteristiche immaginario-utopiche della Cuccagna contadina né quelle normative dell’aldilà punitivo cristiano : queste erano ciascuno a suo modo, geografie sostanziate di una loro funzione, ideologia, erano visioni del mondo; il sotterraneo cittadino è invece una sorta di negativo del mondo di superficie, è un reticolo di cunicoli e fogne che alimenta paure e inquietudini, popolato da figure intermedie tra vita e morte, non morti biologicamente, ma non vivi socialmente, senza per altro riuscire a delinearsi come topos immaginale definito.

Se il cristianesimo medievale, secondo l’efficace espressione di Jacques Le Goff, ha infernalizzato il sottosuolo, sostituendo con i regni delle eterne sofferenze ultraterrene gli ipogei mondi di abbondanza delle mitologie contadine, popolati da creature propizie ai moti vegetativi della natura e ai raccolti dei campi, la modernità lo ha invece funzionalizzato, sostituendo all’artificio immaginale delle ossessioni medievali, la concretissima realtà di un artificio tecnologico funzionale alla vita/sopravvivenza itinerante del cittadino: la metropolitana.
Con l’invenzione della metropolitana, il sottosuolo diviene luogo di normalità formalizzata, habitat culturale di genti itineranti, non più ricetto di rifugiati o reietti, che vi trovano ancora rifugio, ma oggi sono a disagio dove un tempo erano di casa; la metropolitana ha conferito al mondo sotterraneo un nuovo statuto di normalità, ufficialità, integrazione sociale, accessibilità. La metropolitana dischiude al cittadino i mondi ipogei, senza che questo debba affrontare mitologiche catabasi, misurarsi con le erculee fatiche di discese iniziatiche. 

Il cristianesimo, infernalizzando il sottosuolo, crea un nuovo spazio normativo che vuole sradicare la pericolosa valenza del mito delle genti contadine.
Ciò che il cristianesimo ha fatto nei confronti del sottosuolo contadino, la modernità lo ha fatto nei confronti del sottosuolo urbano della città ottocentesca. Ha creato un nuovo spazio normativo, razionalmente abitabile, massimamente funzionale e si è così riappropriata di un luogo di pericolosa indefinitezza sociale.  Così l’istituzione metrò rappresenta la riconquista epocale, alla normalità e all’ufficialità del mondo di superficie, dei territori oscuri del sottosuolo, rifugio dei miserabili di Victor Hugo, sentina di topi ed epidemie alla Camus o destinati ad accogliere i cadaveri di quelle stesse epidemie.
Il cittadino/passeggero aderisce al nuovo statuto “dei regni ipogei” attraverso un contratto quotidiano stipulato con l’istituzione metropolitana:  il biglietto, oppure varie forme di contrattualità promozionale che tessono intorno e all’interno del nuovo mondo inferico un sistema normativo che è quello del commercio e del suo linguaggio simbolico, ma anche quello, più profondo e oscuro dello scambio simbolico.  
La conquista dei mondi ipogei, regni di abbondanza per la mitologia contadina o geografie della dannazione eterna per il cristianesimo, è stata forse l’operazione finale e determinante del processo costitutivo della moderna metropoli, l’atto culturale che l’ha differenziata per sempre dalla città antica e medioevale, fondata sulla netta contrapposizione tra superficie dei vivi (in senso biologico e sociale) e sotterraneità dei morti, intendendo vivi e morti in senso biologico e culturale (il morto come cadavere e il morto come destituito di status sociale, il “morto civile”). In chiave di psicologia analitica junghiana, con James Hillman si potrebbe richiamare il mito della discesa all’Ade di Ercole (catabasi) come atto violento della coscienza sui territori dell’inconscio. Possiamo così leggere la funzionalizzazione e normazione del sottosuolo come un’estensione della sfera della rappresentazione conscia dello spazio urbano (la superficie) a scapito della rappresentazione inconscia (la profondità). Oppure le teorie del potere alla Foucault potrebbero condurci ad una lettura in chiave di controllo sociale su territori un tempo abitati da reietti o cospiratori o ancora di reclusione e sorveglianza su enormi masse costrette nei percorsi regimentati dei tornelli e delle scale mobili, con tutto il sistema segnico volto a garantire l’incolumità, la funzionalità, l’efficienza del viaggiatore sotterraneo, ma anche il suo conformarsi a regolamenti funzionali alla conservazione di un ordine sociale determinato: condizionamento di orari di lavoro e quindi subalternità alle dinamiche produttive,  ma anche regole di comportamento sociale atte a incivilire la convivenza, ma non per questo privi di una dimensione di coercizione e repressione e quindi di corrispondente intolleranza e spinta all’infrazione: il divieto di fumare sta diventando scontato anche nelle banchine di attesa, ma non lo era fino a qualche anno fa: oggi sulle banchine o dentro i vagoni fuma solo il barbone, oppure l’individuo a-sociale o anti-sociale, per mandare un messaggio dalle profondità del suo malcontento alle genti di superficie che hanno invaso quelli che per millenni sono stati i suoi territori, così come il suicida sceglie di gettarsi sotto la metropolitana, magari cercandovi nel fondo più fondo un archetipo di resurrezione.



La metropolitana nasce per risolvere i problemi di mobilità delle città affollate. Giusto, forse. Materia per storici dell’urbanistica e dell’architettura, ma è lecito chiedersi se questa conquista del mondo inferico sia veramente in una relazione così esclusiva e necessaria con il tema della mobilità e della crescita demografica. Alla fine degli anni ’50 Milano non è una città sovrappopolata, anche se si poteva prevedere  che lo sarebbe divenuta, e certamente i pianificatori lo prevedevano. Ma veramente non era possibile un altro modello di sviluppo della viabilità? Ad esempio (e questo vale per tutte le moderne metropoli) se non si fossero intasate le strade con un traffico automobilistico irrazionale e non-funzionale non ci sarebbe stato bisogno di funzionalizzare il sottosuolo trasferendo in esso i tragitti quotidiani di milioni di persone. Massima velocità nei territori inferici, esasperante lentezza in superficie: questa, a pensarci bene, è la situazione attuale di molte grandi metropoli europee e mondiali. La modernità ha trasferito nel sottosuolo il suo mito di funzionalità per liberarlo da altri miti fattisi oramai inutili o inquietanti. Là sotto qualcosa bisognava mettere, quello spazio dell’immaginario individuale e collettivo doveva essere colonizzato dalla norma e dalla ragione. Coprirlo di cemento non sarebbe stato sufficiente, non avrebbe cancellato la presenza di un vuoto misteriosamente popolato; andava colonizzato e lo si è fatto inventando un nuovo habitat umano.
Lo spazio sotterraneo diventa uno spazio da percorrere, non più da abitare (da vivi o da morti). Il vivo non abita gli spazi ipogei, li percorre; il vivo che si ferma nel sottosuolo della metropolitana diventa morto, è cioè il “morto civile”, il clochard, il reietto. Oggi il clochard non può più dormire nei sotterranei della metropolitana milanese, mentre succede ancora a Parigi. Però durante il giorno vi sono persone che tendono a sostare in metropolitana, come in una forma di “abitare”, indugiando cioè, lasciando scorrere i treni anziché salirvi come fatto necessario e scontato. Sono relitti di quella forma di popolamento del sottosuolo anteriore alla nascita del sistema funzionale e normato della metropolitana.

Nasce una nuova mobilità che è anche un nuovo vissuto, oggi consueto, interiorizzato tanto da apparire normale, ma che al suo sorgere dovette determinare una modificazione dell’autorappresentazione individuale e collettiva del cittadino nel suo rapporto con lo spazio abitativo. E’ una mobilità che non conosce ostacoli, che ha nella velocità massima il suo fine ultimo, è la negazione finale dell’andare contemplativo del flâneur baudelairiano (e benjaminiano), è un andare irrelato, straniante, astratto.
Un non viaggio per non luoghi (secondo il concetto formulato da Marc Augé, vedi Un etnologo nel metrò, 1992), il viaggiare destituito dei suoi contenuti e ridotto alla pura finalità dell’arrivare. In questo senso il viaggio nella privazione estetica del tunnel  metropolitano è anche un atto di cancellazione momentanea (ma ripetuta con costanza e regolarità, necessaria) del paesaggio urbano, è esperienza di una non esperienza, produzione di uno spazio normato, astratto, a sé stante.
Il filosofo francese Paul Virilio ha elaborato il concetto di dromologia in rapporto con la percezione e il vissuto di uno spazio. La ricerca della velocità estrema è coronata, nell’epoca informatica dalla creazione del tempo live, in diretta, la contemporaneità di tutti i luoghi del mondo che sopprime le esperienze del viaggio, i transiti, fondando una permanenza universale. Questa velocità attiene alla sfera della comunicazione incorporea, ovviamente ancora non siamo al teletrasporto dei corpi fisici, ma sì alla simultaneità delle immagini e della loro fruizione in punti distanti del mondo.
In questo senso, la velocità della metropolitana è ancora moderna, non postmoderna, ma è al limite della modernità, perché il tempo di cui si sostanzia ha già annullato i riferimenti spaziali e segnici del mondo di superficie, è un tempo che tende a superare la scansione e la gradualità data dall’ostacolo e dall’interazione con altri oggetti (il traffico di superficie); anche il treno ci aveva provato con il binario che è direzione esclusiva, e infatti contro il viaggiare in ferrovia si levò lo sdegno di John Ruskin, amante del lento e accidentato incedere dell’antica carrozza a traino animale.
Ma il treno doveva – deve - comunque fare i conti con un ambiente di superficie con cui interagire, e il suo andare è rallentato da svariate interazioni così come lo sguardo del viaggiatore è distratto dal paesaggio fuori dal finestrino, un panorama cangiante. Così lo spazio interno al treno non è perfettamente autonomizzato dal mondo esterno, è un vissuto di sguardi tra l’interno e l’esterno, e il tempo del suo viaggio è un tempo dell’attesa che si ricomponga un equilibrio mai veramente interrotto. La privazione estetica del viaggio sotterraneo si configura come uno stato percettivo o un vissuto a sé stante, uno spazio e un tempo di un illusorio “già arrivati”, giacché tra il partire e l’arrivare non c’è ostacolo o distrazione esterna al viaggio in sé. Questa illusione alimenta il disappunto e la frustrazione polemica per ogni contrattempo anche minimo. L’assenza dello sguardo sull’esterno favorisce la riflessione? In teoria dovrebbe esser così,  ma non mi pare. Io penso meglio in treno che in metropolitana, e ho più facilità a stabilire un rapporto colloquiale con un occasionale compagno di viaggio su di un treno di superficie di quanto ne abbia sul vagone di una metropolitana. In generale è difficile vedere persone che socializzano in metropolitana, e non credo dipenda solo dalla durata temporale del viaggio, ma piuttosto e primariamente proprio dal fatto che ognuno è declinato in quella dimensione del “già arrivati” che sottrae alla possibilità di un utilizzo del tempo intermedio del viaggio (che è psicologicamente negato).

Questo spazio è schematizzato dai diagrammi delle mappe delle linee metropolitane, ma anche queste mappe sono non-mappe. Nel senso che il rapporto mappa territorio non è quello che intercorre in superficie. La mappa dei tracciati metropolitani sotterranei è solo uno schema che non contempla oggetti né rapporti realistici di distanze. Quando arriviamo in una città che non conosciamo e ci impadroniamo immediatamente di questi diagrammi sotterranei, cerchiamo nel corso dei giorni di permanenza di memorizzarli, creiamo una nostra rappresentazione del territorio sotterraneo che corrisponde ad un vissuto parallelo, forse alternativo, in che modo interagente?, con il mondo urbano della superficie. Però il territorio sotterraneo, che noi riduciamo mentalmente a quello schema di linee colorate e segni convenzionali essenziali e massimamente funzionali, tende ad emanciparsi da tale asettica rappresentazione. Lo spazio della metropolitana, quello degli androni, delle scale e delle banchine, ma anche quello dei tunnel, assume la sua identità e organizzazione proprio nella tensione tra l’estrema funzionalizzazione astratta dello schema di quella non-mappa e la fisicità dei suoi spazi che tendono ad imporsi alla coscienza come luoghi, perché comunque, dove l’uomo si muove, respira, dialoga e interagisce, riversa immediatamente l’inessenziale della sua vita sociale, e in questa tensione risiede la problematicità di uno scontro tra la conquista funzionalizzante del sottosuolo da parte del mondo razionale della superficie e le ragioni o disragioni antiche di quella profondità che tendono a scardinare il rigore schematico dei diagrammi delle mappe metropolitane. All’astratta rigidità della mappa delle linee metropolitane corrisponde la ridotta o nulla resilienza del sistema del trasporto sotterraneo.  La resilienza è la capacità di un sistema di compensare squilibri derivanti da fattori esterni. Le moderne metropoli sono normalmente considerate sistemi a basso livello di resilienza, ma il mondo metropolitano di superficie è assai più resiliente di quello sotterraneo. L’intero sistema del trasporto sotterraneo può bloccarsi o subire pesanti rallentamenti se un solo convoglio si guasta o se qualcuno si getta sotto un treno. Se si blocca un tram o un autobus possiamo scendere e cercare la nostra via a piedi per la città o su qualche altro mezzo. Bloccati in metropolitana non possiamo che aspettare che il sistema da sé si riconfiguri nella sua funzionalità regolare. Oppure se ci viene consentito di abbandonare il treno in stazione non possiamo fare altro che abbandonare l’intero sistema sotterraneo e tornare in superficie, ovvero cercare di riguadagnare un superiore grado di resilienza. Naturalmente le varianti sono numerose e ognuno di noi può attingerne alla propria esperienza, ma, in generale, tutte rimanderanno ad una conferma del basso livello di resilienza del sistema sotterraneo.
Da ciò deriva un varco alla funzionalità, che non riguarda solo gli aspetti dell’efficienza del sistema, ma anche la sua rappresentazione simbolica di territorio fittamente normato. L’incidente o il guasto infrangono l’incantesimo della sostanziale non-comunicabilità del luogo sotterraneo.

Se il viaggio in metropolitana è funzionalità massima (con gli inconvenienti che abbiamo visto), altra cosa è l’organizzazione spaziale che lo precede: lo spazio della stazione, ovvero dell’attesa e del transito. Questo è uno spazio intermedio tra la superficie e la profondità massima nella quale si svolge in percorso della metropolitana o del metrò (che è, nel dire comune,  al tempo stesso il mezzo di trasporto, la struttura nel suo insieme e la stazione). Lo spazio che precede la banchina è una progressiva discesa ipogea, vi si svolge la catabasi quotidiana di milioni di persone e la risalita alla superficie, ma a differenza delle discese eroiche narrate dalla mitologia, nessuna modificazione radicale avviene nei protagonisti di tali passaggi di livello e di soglia destituiti di funzione rituale e coscienziale proprio perché iperfunzionalizzati in senso utilitaristico. Avviene però una modificazione psicologia momentanea, superficiale, però ripetuta, quindi significativa nella durata, nel tempo. Il cittadino di superficie getta via la veste (residua, già logorata dai ritmi della città contemporanea) del
flâneur e diventa passeggero nel senso più stretto del termine, cioè in lui tutto si fa passaggio, nulla è indugio o distrazione, i suoi passi sotterranei sono volti ad arrivare in un certo luogo. Gli spazi di sosta, che pure esistono  (ma anche qui sarebbe interessante scoprire da quando esistono, per esempio i bar e i negozi al di là dei tornelli, e se nascono con la funzionalizzazione del sottosuolo o vi subentrano come forma mimetica del mondo di superficie), sono destituiti della pienezza della loro funzione, sono tutto sommato fuori luogo, soprattutto al di là dei tornelli, nello spazio oltre la soglia che sancisce il contratto per il passaggio dal mondo di superficie di “funzionalità diluita” potremmo dire, a quello del sottosuolo, di “funzionalità concentrata”.
Questo tipo di cittadino passato al sottosuolo sarà il fruitore dell’opera arte che siete invitati a ideare  per gli spazi sotterranei.
Egli è caratterizzato da un atteggiamento di non-attenzione, che è cosa diversa dalla disattenzione, perché non è un grado basso di attenzione e non è neppure distrazione (che è basso livello di attenzione oppure attenzione distolta da un determinato oggetto ma rivolta a qualcosa di vicino) ma un tipo diverso di atteggiamento, con una sua natura propria: questo atteggiamento trasferisce l’attenzione al di là dello spazio attraversato, al di là del momento dell’occupare quello spazio particolare; è un’attenzione che già coincide con il luogo dell’arrivare, con quella dimensione del viaggio al quale è stato sottratto il paesaggio, il territorio estetico. Il viaggiatore che si avvicina alla banchina è proiettato nella dimensione del “già arrivato” e tutto quello che si frappone tra lui e il suo essere arrivato è un ostacolo. Questo succede in parte anche per il passeggero della superficie, ma in misura più attenuata e non necessariamente. Il viaggio in superficie infatti si articola in vari momenti di attenzione per immagini, luoghi e oggetti inessenziali all’arrivare, benché il fine ultimo sia (ma non necessariamente) l’arrivare.
Richiamare lo sguardo del viaggiatore sotterraneo da quell’oltre compulsivo nel quale è proiettato, suscitarne l’attenzione e l’indugio all’interno di un ambiente votato alla funzionalità del transito e dell’arrivare (o forse, meglio, dell’essere “già arrivati”) è compito che può variamente declinarsi, attraverso messaggi affidati a forme presenti a livello conscio o inconscio, sia nella consapevolezza storica sia nell’inconscio collettivo della comunità urbana.

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